tempo di sospensione

Era spuntato senza preavviso.
Un’ansa alla base del collo. Una pallina che a toccarla si muoveva e faceva male. Una dolenzia come uno strappo quando dormi male o il cuscino è troppo duro.
Si era svegliata e aveva sentito quel rigonfiamento. La tenda dei capelli lo nascondeva al mondo. Certo poteva rimanere con il suo collo da cigno ancora a lungo. Bastava solo tenere i capelli sulle spalle. Non tirarli in uno chignon disordinato. Non scostarli dal volto adesso che faceva tanto calco. Lasciare che adornassero le spalle. Tutto qua.
C’era spettacolo a teatro, quando lo spessore di quella cosa le capitò tra le mani per caso. Non poteva preoccuparsi più di tanto di quel ponfo. Anzi. Era la scusa per non pensarci, mettere la testa sotto la sabbia come facevano gli struzzi oppure come i bambini: che si nascondono sotto le coperte se alla sera hanno paura del buio, così sotto a quel lenzuolo, il buio non ci sarà più. Anche se non è vero.
Aveva paura. Della fine. Che arrivasse così per caso, come per tutti. Del resto. Perché mai avrebbe dovuto fare eccezione, lei?
Aveva preso l’antibiotico per sette giorni. Non aveva informato i suoi per cinque giorni. Si era affidata alla palpazione di una sua amica, un anatomo patologo che aveva dichiarato l’anamnesi e la necessità di un’ecografia.
A fare l’ecografia, dopo il termine per l’assunzione dell’antibiotico, c’era andata da sola. In un centro anti tumori. Più sicura di così. Alle brutte, era già in un posto blindato. sicuro.
Non abbiamo bisogno di essere rassicurati? Di qualcuno che ci dica: “Coraggio, non stai per morire?”. Non ancora, non così. Una bugia. La prima vera bugia, in fondo.
Aveva aspettato che la sua amica arrivasse. Era scesa con lei nelle viscere dell’ospedale e si era affidata allo sguardo mite di un ecografista, sunnita, che molti, molti anni prima era approdato lì. Che era straniero, lo capivi dall’accento. Biascicava con delicatezza le parole e la voce aveva un timbro dolce di chi parla poco perché dice quando è il momento di farlo.
Quindi, si era distesa. Il cuore in tumulto, parlando dell’ultimo film che aveva visto per allentare la tensione. Con coraggio, stringendo fra le mani un rosario dai grani rossi pronta ad andare incontro al suo destino. Fiera di essere lì, da sola.
E, niente. La prima sospensione ha inizio dopo che la macchina stampa le foto della scienza delle ombre: il suo linfonodo che nuota come un puntolino sparuto e nero nel bagliore grigiastro dei riflessi della carta fotografica.
Responso: “una settimana di antiinfiammatorio e poi ripetiamo l’esame”.
Bene, molto bene. Ma non si sentiva sollevata, affatto. Quei bisbigli che potevano intendere solo i due medici. Quel silenzio trattenuto. Quel linguaggio da carbonari … “con tutti quelli che hai visto tu!”…” qui ce ne sono alcuni che non dovrebbe esserci”…non la facevano stare tranquilla.
La cosa migliore da fare era tacere. Non chiedere troppo spesso. Rimanere in silenzio e farsi venire un attacco di panico o d’ansia, il primo disponibile, da superare, rigorosamente da sola, perché non c’era nessuno da cui farsi sostenere. E non voleva che nessuno si preoccupasse veramente per lei. Non era il caso preoccuparsi per lei, giusto?
Aveva una sola possibilità per sostenere quei giorni che passavano e si arrotolavano su pensieri e sensazioni che sezionava, definiva, catalogava. fino ad annaspare o a sentirsi distaccata, o leggera, come chi vive quel giorno davvero come se fosse l’ultimo e pensava che, quando i guru che allenano a vivere ti suggeriscono di vivere nel momento, omettono di dirti che il motivo fondamentale, non è perché hai solo il presente, ma perché nessuno, può dire se domani ci sarai oppure no.
Un’altalena, fosca. In un mare in tempesta. Irascibile. Improvvisamente in lacrime. Davanti a un altare, a cercare conforto. A capire perché.
Al livore della rabbia, allo spaesamento della paura, era subentrato il turbamento dell’attesa, prima, e un euforico senso di potere poi.
Si era decisa a chiamare il suo medico di famiglia. Per telefono le aveva descritto i sintomi e la sua voce l’aveva rilassata.
Poi era arrivato il giorno di rientrare da casa sua, dopo una breve fine settima tra caldo torrido e condizionatori da aggiustare e ne aveva approfittato per andarci di persona. Dal suo medico. Le mani avevano palpato il collo. qualche secondo appena per formulare il responso. Analisi si del sangue. Due ricette rosse piene di parole da decifrare, almeno per lei.
Eccoci qua, il giorno prima del prelievo in questa bolla di sospensione in cui tutto è denso. In cui tutto ha senso. In cui tu sei.
Ci rideva su. Faceva dell’autoironia. Era pronta? Mah, chi può dirlo?
Era sicura. questo si, perché, questo si, perché era a casa a sua. Con la sua famiglia. E sapeva che ce l’avrebbe fatta. Perché sapeva che qualcuno si prendeva cura di lei. Le che ne aveva tanto bisogno. Così tanto da non sapere più dirlo.