Ritorno a casa

Sembrava fosse lì per voi. Il vano bagagli, dici.
C’era lo spazio esatto per sistemare le vostre valigie, senza lanciarle come avevi previsto.
Certo, impilate, come due equilibristi da circo Barnum, bloccavano la valigia appiccicata sul fondo di quell’andito. Certo il suo proprietario, la sua proprietaria, avrebbe masticano catene dinanzi a quella barriera inespugnabile e pesante, ma era la legge dei rientri in treno, dopo le vacanze più lunghe dell’anno. La legge di quelle anime in bilico tra due mondi. Le anime dei migranti, di quelli che non hanno un posto, che non appartengono. Gli adottati o gli adattati. Che la sopravvivenza funziona così e in un ambiente diverso cerchi odori e profumi di casa, per poi ritrovarne veramente la loro origine quando ritorni a casa e li puoi toccare. E sai che sei di quel posto e sai che quel posto dovrai lasciarlo, senza sapere se, oramai, il motivo per cui ciò accade, abbia davvero un fondamento, se non quello di una convenzione sociale. Tenere unita la famiglia, in un unico luogo; non sradicare i figli che hanno preso ad attecchire fra scuole e palestre. E poi ci sei tu che ogni volta ti domandi se stai facendo la cosa giusta e menomale che la c’è la normalità. I riti da compiere, le solite strade da percorrere. Il solito traffico in cui imprecare. Le solite buche da evitare.
Funziona così per quelli che sono in bilico tra due mondi. Perché le partenze, per voi immigrati, fanno sempre male; arriva il giorno dopo e quel dolore che hai nel cuore s’innesta sul suo battito naturale. E ricominci, senza chiederti perché. Eviti. Lo accantoni fino al prossimo viaggio, fino al prossimo ritorno. E ti dici che la tua è un’anima nomade, quando le tinte fosche della sera ti avvolgono. E ti dici che sei cittadino del mondo, quando hai bisogno di credere che, davvero i confini non esistono, solo quelli del cuore.
Quindi, il vano bagagli è in attesa, come voi prima di lui, sulla piattaforma del binario. In attesa di sentire la composizione del treno, cariche come bestie da soma, anche se, ti dicevi, la più parte era già adagiata sul pavimento di casa, in attesa che le tue mani togliessero le cose e le riponessero al loro posto. Aspettavate sulla banchina, il treno. La voce metallica gracchiava la composizione. L’arrivo. I due minuti di tempo in cui abbracci il peso di tutto e, in quell’equilibrio rodato, sali con destrezza, attenta che nulla cada, nemmeno tu. E poi. Via. Le porte si chiudono e cerchi spazio, spazio per i bagagli, appunto. E quello spazio c’è, contro ogni previsione. E allora pensi che si inizia bene, che il ritorno sarà lieve. Che gli scossoni, scomposti e sbilenchi, si assesteranno con dolcezza.
L’altro ostacolo da superare, sono i posti. Prenotati non con troppo anticipo. Avevate deciso di trattenervi il più a lungo possibile. E il carro bestiame-e-valigie che vi avrebbe ospitato, vi adula con la chimera della velocità, che in meno di tre ore e mezza vi sareste ricongiunte a un’altra banchina, dove non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarvi, che per motivi di sicurezza non si può bivaccare tra il grigio delle lastre di marmo e i bagliori dei distributori automatici. Conservi questo privilegio solo se sei un viaggiatore. Titolo-di-viaggio, prego: un salvacondotto dall’altra parte della barricata. E quindi, una volta scese, si ricomincia. Schiena piegata sotto il peso di bagagli sempre troppo ingombranti, mai troppo leggeri, eppure quella volta avevi ridotto all’osso. Il tuo guardaroba, prima di ogni cosa. Sei brava a cogliere l’essenziale. La valigia era stata composta secondo la legge di Marie Kondo. Solo abiti che ti rendevano felice. Allineati e coperti perché ogni spazio del borsone ne fosse riempito con gentilezza.
Le porte si aprono, salite, si chiudono con un rumore di souffle che si sgonfia.
Ogni spazio, ogni andito, del treno è infestato di cose. Preso d’assalto da rettangoli e quadrati da non dimenticare, che una volta avevi lasciato un beauty-case, grigio e brutto, ma pieno di creme, cremine e profumi. Eri incinta. E bastava il peso della pancia e l’allegra dimenticanza del mondo che ti circondava, non ci avevi pensato più. Né eri andata all’ufficio reclami per gli oggetti smarriti, che le endorfine della vita che si svolgeva dentro di te, ti avevano consumato i riflessi. Del beauty-case che giaceva dimenticato sul ripiano nel soffitto del vagone, te ne ero ricordata. Tardi. Troppo tardi. Hai sempre pensato che ne avrà fatto buon uso qualcun altro. Qualcun’altra.
Ogni spazio, ogni andito del treno è invaso di valige, cavallette impazzite che si muovono all’andare del treno. Una beriozka russa, dove le donne muovono i passi cosi lentamente che sembrano fluttuare sul pavimento.
A un passeggero che occupa un posto singolo hanno riservato un trattamento speciale: una protezione con una linea di difesa inespugnabile, a forma di valigie impilate con ordine, e, suo malgrado, si trova, più che seduto, incastrato nel suo posto, con uno sguardo sbilenco. E alza gli occhi al soffitto grigio del treno, sconsolato e un po’ incagnato, che nessuno, santo cielo, dovrebbe viaggiare in questo modo.
Il signore del posto singolo è asserragliato, come in trincea, contro quel tipo di sguardi che lanci, anche se non vuoi, quando devi raggiungere il bagno, il vagone ristorante. Gli sguardi di quegli impavidi che, sprezzanti degli involti, incedono sulla passatoia stretta dello scompartimento, in un esercizio da defilé, manco fossero al Grand Palais per la sfilata haute couture di Chanel, firmata Karl Lagerfeld. O al Victoria’s Secret annual show. E senza ali, che sennò perdono l’equilibrio. Tutto questo per raggiungere la carrozza ristorante e rifocillarsi, perché è necessario dare un senso alle gambe da sgranchire, gustando un caffè da un euro e cinquanta centesimi. Un modo per farti sentire a Via dei Condotti, senza la tostatura o la porcellana fine del Caffè Greco; ma in quel viaggio, in quel percorso, almeno si concede un obiettivo all’imprudenza di affrontare un corridoio stretto e pieno di valigie. Di trasportini nascosti, tra un sedile e un altro, dai quali, d’improvviso, sale l’uggiolare isterico di cani più isterici dei loro padroni.
Poi, devi ritornare al tuo posto et voilà: defilé, equilibrismo, sguardi volanti…e tu, con la sensazione di essere sul red carpet di un zattera sballottata in balia delle onde dell’alta velocità. Una cosa semplice, in fondo. Per chi, come te, viaggia in treno, quasi un vezzo. Sei abituata a evitare ostacoli, aggirarti tra le strettoie, armeggiare con le porte elettriche, che di elettrico hanno solo il pulsante, perché lo devi premere affinché si aprano, indifferenti al corpo umano.
Raggiungi il tuo posto. Ti siedi e pensi. Come affronterai queste ore strane e ballonzolanti di viaggio. La tua compagna ha dieci anni. È tua figlia e si è immersa nella visione di un film. L’auricolare ha un solo microfono che funziona. Le hai ceduto il tuo perché una madre fa così.
Ma c’è un prima che hai omesso. Prima di arrivare al tuo posto, prima ancora di raggiungere la carrozza ristorante. C’è qualcosa che è accaduto prima, in quello spazio in cui l’aria fa fatica a muoversi.
Uno dei corollari dei viaggi di ritorno, dopo una così lunga permanenza in un altrove dal quale provieni, è lo scambio dei posti; così arrivate alle vostre lettere, ai vostri numeri, per scoprire che sono occupati da abusivi. “Scusi, posso rimanere qui?, Sa..ci sono i mieli figli con me”… E guardi questa donna, bionda, di Roma nord, perché quelle di Roma nord lo portano scritto in faccia, hanno quella sicumera di chi ha diritto a tutto, di chi prende tutto…. e tu giri un po’ il collo e ti chiedi che legame ci sia tra te e la piccola persona che è dietro di te. É tua figlia. Quella signora sembra non averlo notato. Come fa a dividersi dai pargoli, proprio lei?. E allora t’intigni e le dici che anche tu hai una figlia e poi sbuca il gesto di cavalleria d’antan, di quelli che sono rimasti ai tempi del Gattopardo e si riscoprono cavalieri con le belle signore della Roma bene di Roma Nord. Che si immola al posto suo. Così da non spezzare il legame tra madre e pargoli. Poi appare la finta svampita, quella che se la fermano i carabinieri sbatte le palpebre sugli occhi da cerbiatto, l’altra usurpatrice del tuo posto. “Oh, scusami, non sapevo… io ho quello di fronte a questo…ma volevo viaggiare nella direzione di marcia del treno che, sai, …non lo sopporto molto”.
E tu, con uno sguardo spazientito, perché basta con questa incapacità di adattamento e questa falsa innocenza, e lei risponde a un comando, quello dell’imbarazzo, che le voci, in treno, hanno un suono centuplicato, anche per i sospiri, e tutti, al sentore di qui-si-viene-alla-lite, diventano muti, in attesa che qualcuno la faccia grossa. In attesa di un po’ di pepe da aggiungere a un viaggio noioso. Alla fine, la composizione dei passeggeri di quella carrozza, vi vede così schierati: tu e la tua piccola persona, l’una accanto all’altra. La mamma affranta, che durante il viaggio si è sbracciata, con i suoi pargoli, in una sequela di “lasciami-stare-che-sto-dormendo” e “uffa-non-sai-andare-tu-da-solo-al-bar?”, ai posti di partenza e il signore gattopardesco, alle tue spalle.
La temperatura interna raggiunge picchi da altoforno. Le gote in fiamme, quasi del colore della tua pelliccia, con il pelo arruffato di una pecora che si è imbattuta in un rovo di more. La piccola persona che siede al tuo fianco rimane quieta e segue le avventure di un koala che crede nel suo sogno e vuole rilanciare un teatro che fa acqua da tutte le parti. Per aspera ad astra.
E tu? Ti difendi dietro a un libro. La storia di trentadue bambini che terrorizzarono San Cristobal negli anni Novanta. La rivoluzione in formato ridotto e da accattone, che i bambini sono di strada. Il libro narra di questi piccoli combattenti che sanno come la foresta può proteggerli e nasconderli agli occhi dei grandi, dopo che hanno depredato la città. Che tengono in scacco gli adulti con quella perseveranza muta dell’adolescenza, che presto ti crollerà addosso. Vai avanti nella lettura, ma sei svogliata perché il ritmo è da cronaca forzata che nasconde un grande segreto. La cronaca ti tiene ancorata al tuo presente e il tuo qui-e-ora surriscalda e asfissia portando con sé la certezza di una destinazione che dovrai indossare di nuovo, come se fosse la prima volta.
Quando arrivi a destinazione, l’aria è mite. Nessuna traccia di un freddo pungente o di refoli di vento che sollevano i lembi del cappotto. È come se tutto fosse più fermo, per darti l’idea di quello che rimane, che è lì che rimarrai.
Ma questo viene dopo.
Adesso, sei indecisa. Vai avanti, dietro alla tua barricata di lettere nere su pagine prima bianche. Ma sei svogliata mentre leggi un libro dalla copertina rossa che parla di bimbi rivoluzionari e di adulti che non li capiscono e per questo li hanno chiamati così. Che il bisogno di cambiamento del diventare persona è sempre incompreso. Dimenticato. Annacquato.
Non sembra tacitarsi il tossire di qualche sedile più indietro, né l’abbaiare isterico da qualche trasportino più in la. Ti sporgi e ne vedi il motivo. Una padrona premurosa ha coperto con il cappotto le grate. La bestiola non vede e in quel mondo fatto di oscurità ogni rumore deve sembrargli una deflagrazione, come la sera del trentuno dicembre quando i petardi invadono l’aria e le orecchie e i cani protestano arrabbiati e impotenti.
In questo viaggio di ritorno, da un altrove che ti apparitene, rimani seduta al tuo posto. Leggi. Senti le vibrazioni del cellulare, che la suoneria alta è davvero uno sgarbo quando si viaggia. Qualcuno ti ha scritto qualcosa.
La ragazza che prima era al tuo posto ha pene d’amore. Parla fitto al telefono e riferisce a un’amica di un comportamento che è stato frainteso da un corteggiatore o da un ex che vuole tornare come prima. Sembra saperla lunga. Le unghie laccate di rosso, lo sguardo sfrontato, l’espressione da il-mondo-è-tuo stampata sul volto. Eppure, a guardarla meglio negli occhi, senza che distolga lo sguardo, vedi una fatica, una stanchezza di chi è abituato a ricominciare senza sapere dove andrà. Proprio come te. Perché è questo il segreto di ogni giorno di vita in più, ricominciare per scoprire la tua destinazione. Ricominciare ogni giorno. Basta solo sapere come. O seguire la pancia, il cuore, le gambe o il cervello, non sai dire. Dipende dalle situazioni. Quello che puoi dire è che la ragazza parla per tutto il tempo del viaggio. Quando la conversazione raggiunge un livello d’intimità preoccupante e il volto le si contrae per la rabbia, si alza, supera con nonchalance l’ostacolo umano che occupa il posto di fianco al suo e sparisce, verso la carrozza ristorante o inghiottita da qualche buco nero che puoi trovare su un treno ad alta velocità. Dopo un tempo indefinito, ritorna. Sempre incollata al telefono.
La mamma bionda si è arresa alle richieste del figlio. É andata a fare la spesa alla carrozza ristorante. Patatine, cioccolata e cracker, da infilare in bocca in un solo gesto e masticare con quel fare nobile, manco fosse Iriza di Candy-Candy, che le signore non fanno briciole e non fanno puzzette. Il polpastrello del pollice sfiora quello del medio per togliere l’ombra invisibile lasciata da una briciola. Un vezzo per darsi un tono. Quando non ne hai.
I bimbi che le siedono hanno i visi in giù. Giocano alla luce bianca di uno schermo piccolo.
Al mio fianco, tutto procede con lentezza. E routine. “Ho fame”. “Ho sete”. “Mi prendi per favore il panino che io non mi posso alzare?”. Quindi, ti inerpichi verso il vano portaoggetti, che sovrasta le vostre teste e prendi, senza che nulla ti cada addosso, quello di cui ha bisogno. Mangi anche tu, ma non sei del tutto convinta di avere fame. È quello che accade nei viaggi di ritorno. Il tempo è sospeso. E quando mangi per tristezza, perché non sai se hai fame, non ingrassi, che il corpo sa trovare una consolazione che non fa male. Mangi anche tu un panino preparato per lei, meglio del boccone che hai piluccato prima, che “mamma, tutto non mi va ” o forse ti ha visto come la guardavi e ti ha dato qualcosa di suo.
Ai bambini è concesso indugiare nel cibo. Crescono. Consumano, fin da dentro la tua pancia. Tu devi prestare attenzione.
Quando viaggi in treno e stai ritornando da un altrove che ti appartiene, però, ti è concesso tutto. Mangiare e non pensare se domani mattina il riflesso del fianco nello specchio sembrerà più morbido. É un’altra la fame che nutri. Ecco perché mangi senza cognizione del bisogno della fame, stai consolando l’anima. Che quando viaggi di ritorno da un altrove che ti appartiene hai bisogno della sostanza del pane, di una merenda preparata a casa. Di sentire il suono rassicurante dei tuoi denti.
Hai finito il boccone che tua figlia ha condiviso con te. Ti alzi, prendi un altro panino dallo stesso zaino. Prima chiedi a tua figlia se lo vuole lei, l’ultimo, che una madre conosce l’arte della privazione.
Dice di no, tiri un sospiro di sollievo perché, mangiando prima quel boccone non voluto o condiviso, adesso ti è venuta fame per davvero.
Da Napoli in poi, il viaggio sembra interminabile. È la sensazione di arrivare e non arrivare mai, che manca così poco che non sai più contare e hai sopportato così tanto calore che diventi irritabile. È tutta una preparazione per respingere il ritorno. Che forse sarà più dolce di quanto immagini perché sei diventata brava a vivere quel momento. Con tutte le tue spaccature. Ormai non rimani più a lungo, come prima, con il cappotto addosso, indecisa se rimanere o andare via. Non ti aggiri più tra le stanze di casa per riconoscerle e riappropriati, almeno con lo sguardo, di quei posti. Adesso sei subito in fermento. Che le valigie hanno bisogno di essere sistemate . E sei instancabile. Dopo tutto quel calore. Dopo tutta quella fissità di arti e muscoli, hai bisogno di fare. Di muoverti.
Ma hai superato Napoli e ancora manca un’ora e quaranta: un’eternità. Puoi ancora avvolgere e svolgere pensieri. Cullarti nel timore di quello che avverrà. Oppure no. Fare nulla. Leggere di quei bambini rivoluzionari.
È trascorso tempo sufficiente, perché in tutto questo decidere cosa fare o cosa pensare ormai manca davvero poco. C’è l’ultimo sforzo da compiere. Guadagnare l’uscita prima dell’orda di cavallette che ne ostruirà il passaggio con valigie, buste e beauty-case.
Hai il piglio di un generale d’armata. Sai come muoverti e come sistemarti davanti alla porta giusta della carrozza, quella che si aprirà sul marciapiede del binario. Il binario che ti condurrà all’uscita. L’uscita che ti piomberà in questo altrove che imparerai a riconoscere. Sempre e, oggi, una volta di più.
Il tasto si illumina, ma hai mancato un pezzo.
L’ironia di tutta la situazione, che a farsi tropi scrupoli non va bene, affatto. Perché prima di raggiungere la porta giusta, prima che il pulsante si illumini, hai sorriso. Da sola. Davanti al vano per i bagagli, nel quale avevi lanciato con sollievo le tue valigie, preannunciando maledizioni e parolacce del proprietario o della proprietaria di quella valigia schiacciata sul fondo, grazie alle tue valigie.
Adesso, sopra alle tue di valigie, c’è n’è una pesante. Giace come un animale grasso a riposo, con la pancia in su che le schiaccia e chissà da quando. E tu ridi perché quell’imprecazione che avevi immaginato, ti dipinge le labbra. E tu ridi perché la tua fetta biscottata è caduta dal lato della marmellata. Per aspera ad astra.
E con uno sforzo scomposto, per il quale la tua schiena griderà vendetta, sollevi quest’ennesimo ostacolo. Lo riponi con malagrazia e ti dici: “Benvenuta”.