La forma del tradimento

Tiziana Arnone
5 min readJun 1, 2019
Photo by Craig Whitehead on Unsplash

La verità? Era stanca e non sapeva più cosa fare.

Mentalmente contava le possibilità che restavano per racimolare del danaro, ma non sarebbero bastate. E proprio non sapeva come uscire da quel labirinto.

Avrebbe chiesto ai suoi genitori, ma per quanto tempo avrebbe potuto farlo? Per quanto avrebbe potuto elemosinare cento euro al mese per farci entrare tutto?

E il marito? Dov’era?

Era di là. Dormiva un sonno profondo perché aveva mal di collo e perché doveva riaversi da giorni pesanti.

E lei rimaneva nel soggiorno. Lo percorreva avanti e indietro, confusa e impotente. Non era possibile. Non c’era via d’uscita. Stranamente si sentiva sollevata.

Non è forse vero che quando pensiamo che non ci sia più un’alternativa, accade una magia?

Ma non era l’attrice di nessun film.

Ecco perché aveva ceduto.

Sentiva che non ce la faceva.

Aveva bisogno di protezione.

Di quella che non hai bisogno di chiedere

Chiedere? Non era forse il suo errore più grande, quello di non farlo?

E non era orgoglio, era la certezza che la risposta non l’avrebbe soddisfatta. Che le parole, pronunciate da chi le stava accanto, dopo un sì dorato e solenne, non avrebbero potuto corrispondere, mai e poi mai, al suo bisogno più profondo.

E non era colpa di nessuno perché certe cose accadono e basta e, alla fine, non ha senso neanche cercare di capire perché.

Avrebbe chiesto a sua madre. Di nuovo. E mentre formulava questo pensiero, si domandava quando avrebbe potuto ripagarla per tutto quello che continuava a fare per lei.

Si sentiva in trappola e, nello stesso tempo, pronta ad accogliere l’epifania di una soluzione possibile e inaspettata. Non poteva non essere così.

Era stanca perché aveva iniziato tardi a lottare per se stessa, a capire quello che le si agitava dentro e a come realizzarlo.

Era stanca perché si sentiva sola. Di quella solitudine che non sai dire, che non puoi dire perché nessuno avrebbe potuto addolcire o compensare la ferita del grande rifiuto. L’amore negato da parte del padre. Il fatto che lui non l’aveva mai vista. Non la conosceva.

Proprio così. Semplice e scontato.

Ecco perché aveva ceduto e in quel contesto così inappropriato.

Davanti a tutti.

O forse era stato proprio per questo?

Quando aveva appoggiato la sua testa contro la sua spalla, sotto all’incavo del suo collo il tempo si sera fermato. Le era sembrata la cosa più naturale che avrebbe potuto fare in quel momento. Si erano cercati. Trovati. Si era sentita sostenuta. Appoggiata. Aveva percepito il calore della complicità.

Come se anche lui aspettasse quel momento. Lo volesse.

In fondo, cos’era stato? Un gioco. Un incrocio di corpi dentro alla scatola di uno scherzo, ben confezionato.

Il modo migliore perché quello che più desideriamo accada, senza contraddire la realtà, ma continuando a rimanerci dentro. Attimi. Che ognuno ruba come può per sentirsi meno solo.

Non è per questo che tradiamo?

Quindi, si. Aveva appoggiato la testa sulla sua spalla e si era sentita protetta. Come non le accadeva da un po’. Da troppo tempo. Certo. Era facile. Con un estraneo, per giunta. E come quando sei in treno e racconti di te e, solo alla fine del viaggio, ti rendi conto che non sai nemmeno come si chiama la persona che ti ha ascoltato.

Quello che temeva è che non ce l’avrebbe fatta a sostenere tutto. Che da qualche parte, l’intonaco si sarebbe prima sbrecciato, poi scheggiato e, a poco a poco, le crepe nel soffitto e sulle pareti, avrebbero ceduto sotto a quel peso. La verità era che anche lei sceglieva la strada più semplice. Quella del silenzio. Da interpretare. Peccato che, chi avrebbe dovuto sentire queste parole non dette, annaspava. Non c’era scambio.

Non ricordava più quand’era sta l’ultima volta in cui si erano baciati, con trasporto, perché accadeva e basta. Ricordava invece che per arrivare a questo ricongiungimento, c’era sempre stata una discussione, prima. Non sapevano più parlarsi, se non scontrandosi. Le faceva male. Ma di più, la straziava il fatto di doversi arrendere alla realtà: neanche lui le sapeva dare le risposte che voleva. Che l’avrebbero fatta sentire protetta, una volta per tutte. Neanche lui la sapeva proteggere. E lei, lei era stanca di farlo da sola. E per tutti. Ma non poteva essere diverso da così. Che alla fine ognuno si salva da solo.

Quindi, cosa le restava? Il presente.

Cosa poteva fare? Sperare. Avrebbe trovato una soluzione e le sue preghiere sarebbero state ascoltate. Con una grande digressione spazio-temporale, uno iato, così come accade quando l’uomo volge gli occhi al cielo, tra quello che chiede e quello che Dio ritiene necessario.

È il tempo divino contro il tempo dell’uomo. Puoi solo accettare e aspettare. Senza perdere la speranza.

Ma quel pomeriggio, all’uscita di scuola, si era concessa il trasporto di chi si lascia andare. Lui si era avvicinato, come al solito. Scherzoso e solido. Bisognava risolvere una faccenda di soldi per i regali di fine anno. Che quell’atrio scolastico era diventato una succursale del tempio di Gerusalemme, prima che i banchi degli avventori venissero ribaltati con veemenza. Mani che prendevano e scambiavano buste bianche, che riportavano nomi di questa o di quella mamma. Tre regali, anzi no, quattro, che non si dica che, proprio all’ultimo, ci si dimentica della rappresentante di classe. Uno strenuo baluardo contro le scocciature.

Lei, diligente e compita, aveva prelevato senza fare torto a nessuno e aveva distribuito pani e pesci. A ciascuno il suo. A ogni regalo, l’esatta quantità di denaro.

Quel pomeriggio, lui si era perso un pezzo. E aveva chiesto a lei. Perché l’ultimo tassello era quello più importante. L’ultima somma da versare. Poi non si sarebbero visti più. Nel senso che nessuno avrebbe più dovuto niente a nessun altro.

Il suo braccio le sventolava sotto agli occhi. La sua mano era troppo vicina al viso, come se una strana forza avesse teso un tranello a entrambi. I suoi occhi lo osservavano mentre prendeva gli spiccioli per comporre il totale di quanto mancava. E poi, non sapeva come, lui aveva fatto una battuta e la testa di lei, compiacente della sua comicità, era volata contro il suo petto, nell’incavo del collo, il posto della protezione, che basta poco perché il braccio ti circondi le spalle per lasciare che il mondo là fuori passi inosservato. Il battito che accelera e una morsa di nostalgia che ti prende allo stomaco. Era questo che si provava quando ci si lascia andare, quando qualcosa accade e, non sai dire come, ma hai bisogno proprio di quello. Di sentirti avvolta. Di sentirti dire, senza dire, che tutto andrà bene.

Era questa la forma del tradimento: chi dovrebbe ascoltarti non ti sente.

Era questa la velocità con cui attecchiva e si muoveva. La velocità della cose rubate e inaspettate. Che ti sembra che puoi rimanere sospesa nel tempo.

Fino a che la realtà non irrompe. Con la sua beffa. Non c’è via di scampo. Chi non sa cosa fare, può sperare, aspettare. Non può mollare. Non può dire di essere stanca. Non può nascondersi dentro all’incavo del collo di un estraneo. Per gioco. Deve rimanere, che quando si rimane si resiste. Con tenacia. Perseveranza. Il segreto del successo.

La campanella suona.

Il tempo riprende il suo incedere. Interrotto. Per poco. Per lo spazio necessario a capire che ancora sapeva riconoscere quello di cui aveva bisogno. Per comprendere che aveva sbagliato posto. Per non smentire la portata del suo bisogno. Che ancora non era finita. Che forse ce l’avrebbe fatta. Solo non sapeva come.

La scommessa continuava. Un pausa. Breve. Un tempo riempito di calore. L’ultimo giro di giostra.

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Written by Tiziana Arnone

“I write what I couldn’t tell anyone”. writer. poet, observer. Relationship. Parenting. Personal Growth. Enchanted with life. Thin Skin/amazon.com

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