donne pressurizzate

Tiziana Arnone
3 min readJan 3, 2019

Vent’anni fa, doveva essere stata una bellezza. Non dico da reginetta della contea, ma una che alcuni si giravano a guardare, quando passava per la strada.

Alta, bionda, giunonica, ingombrante, non potevi non vederla, non potevi non notare che era proprio lì, a riempire con una certa invadenza, quello spazio che lambiva con il suo corpo.

Adesso, le continue pressurizzazioni — destino delle hostess di volo di lungo corso — le avevano pure abbassato le palpebre, modificandone lo sguardo. Sembrava guardare il mondo sbilenca, come se i bulbi oculari non sostenessero il peso di quelle tende troppo pesanti.

Doveva essere stata una bellezza, vent’anni fa. Il caschetto biondo, lungo. Le ciocche che svirgolavano sul viso, ad accarezzarle poco più sotto del mento. Una tedescotta dal cuore bavarese, tirata su a forza di birra e con un Dio che punisce.

Che fosse tedesca lo capivi, a parte i colori dell’incarnato, dal pessimo gusto che manifestava per un accessorio femminile. Le sue scarpe, infatti, erano brutte. Prive di forma, di vezzo. Calzavano i piedi per necessità, che in giro a piedi scalzi e con i calzini bianchi non si poteva andare. Assolvevano alla loro funzione d’uso. Proteggere i piedi. Evitare che inciampassero in schegge di vetro, in sassolini puntuti di un manto stradale che cedeva.

Aveva incontrato suo marito su un volo notturno, New York - Francoforte. Superabbronzato lui, con i capelli lunghi, un falso bohemien, basso e dallo sguardo di chi la sa lunga. Uno che nella valigia portava sicuramente camicie bianche stirate alla perfezione. Per darsi un tono. Soprattutto con lei, più alta di lui.

Doveva essere bellissima quando, dalla fine del corridoio avanzava verso il suo posto, nella divisa brillante, con il portamento di una mannequin, e gli porgeva un bicchiere d’acqua, che nei gesti semplici si nasconde l’eleganza di una persona. Doveva sentirsi lusingato che proprio lei, più alta di lui, brillante nel suo biondo vero, lo aveva abbordato in quel bar vicino all’aeroporto. In quell’albergo dove l’equipaggio aveva “casa”. E poi, con una fame crescente, si erano cercati nell’abitacolo dell’ascensore, in preda a un desiderio sconosciuto e assassino. Doveva sentirsi davvero fortunato, se proprio lei — le linee sinuose del collo che terminavano nel dolce incavo tra i seni — lo privava, piano piano, della giacca e poi della camicia e poi di ogni singola resistenza, lui che sapeva già tutto del mondo e delle donne.

La tedescotta della Baviera era fatta così. Ingombrante nel corpo, di una bellezza che non l’aveva mai fatta diventare un reginetta della contea, prendeva quello che voleva. Consumava l’attimo. Che dall’alto di quei diecimila piedi a volte le prendeva lo spavento di non sapere se sarebbe atterrata. Equando vide il tracagnotto, belloccio e superabbronzato, si disse:

“ Perchè no?”. Si disse che era arrivato il momento di fermarsi. E quella notte, proprio quella notte — che fortuna! — concepirono un bimbo, tra lenzuola fragranti di bucato come il primo pane del fornaio.

E quella tedescotta di Baviera capì che era più che atterrata tra quelle braccia. Si era persa perché la sua destinazione finale sarebbe stata l'Italia e si sentì rimescolarsi dentro, nel momento in cui lui le affondava dentro, come se ci fosse sempre stato.

Si stava per smarrire in quella penisola maleducata e affollata di donne dalle scarpe bellissime. E fu lì, proprio in quel momento in cui si era persa, che decise che le scarpe brutte le avrebbe tenute, come il suo sguardo, sbilenco, che sembrava andare dall’alto in basso, come a dire che era superiore, apparteneva a un’altra razza. Che non si abbassava.

Quando nacque la bimba era un susseguirsi di suoni strozzati, quelli tedeschi, alternati a un “vieni, papà? andiamo, papà?”. Che la bimba venne su bilingue. Trilingue, se consideriamo lo slang della grande città italica in cui la donna pressurizzata atterrò per caso.

Al mattino, la diade madre-figlia, si accompagnava a un amico fidato a quattro zampe, dal respiro affannoso e dallo sguardo imbronciato.

Al mattino, il padre e la figlia si accompagnavano a un amico dal collo a pieghe e dal respiro affaticato, legato a un guinzaglio corto.

Era il segno che la tedescotta si era librata in volo, a farsi pressurizzare un’altra volta. E ritornava con le palpebre sempre più abbassate e con le scarpe sempre più brutte.

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Written by Tiziana Arnone

“I write what I couldn’t tell anyone”. writer. poet, observer. Relationship. Parenting. Personal Growth. Enchanted with life. Thin Skin/amazon.com

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